La viticoltura cisalpina già nella seconda età del Ferro, come attestato dalle fonti a partire dal II secolo a.C. e con grande evidenza nei rilievi funerari di età romana, era legata all’uso della botte in legno di quercia.
La descrizione degli scrittori antichi delle enormi botti per l’invecchiamento della Cisalpina (“grandi più delle case” Strab. V, 12) evidenzia come questi vini, probabilmente consumati puri o con scarsa associazione di resine, con una differenza marcata rispetto alle tendenze dell’enologia mediterranea e della stessa area ligure del Piemonte meridionale, fosse legata all’abitudine celtica del consumo di birra pura rossa ad alta gradazione (cervisia), che avevano necessità di una consistente ossigenazione.[1]
Gli scrittori latini, abituati ai contenitori di terracotta che viaggiavano per il Mediterraneo, rimasero colpiti da questo genere di recipienti per la conservazione ed il trasporto di bevande, tanto che “nelle regioni alpine – nota Plinio – le si racchiude in recipienti di legno rinforzati con cerchiature” (N.H.XVI,75)[2] (anche oggi sono le stesse salvo il dettaglio dei cerchi, che allora erano di salice, non di metallo[3]). Lo stesso Sucellus, il dio gallico del vino, il cui nome vuol dire “il buon battitore”, è il Dio del vino perché martella le botti in cui viene conservato: infatti viene raffigurato con una specie di mazza, che è molto simile anche a quella dei Charun etruschi.[8]
Greci, Etruschi e Romani tendenzialmente conservavano il vino in anfore, mantenendolo molto corposo e resinato, consumandolo fortemente annacquato, talvolta caldo, mentre Celti e Germani bevevano vino puro e non resinato né annacquato. Conseguentemente il mondo mediterraneo tende ad utilizzare come vasi potori ampie coppe (come la kylix o il kantharos) che permettono di assaporare meglio con l’odorato i forti aromi della bevanda, mentre l’Europa barbarica preferisce piuttosto bere il vino in bicchieri alti e stretti, che riducono l’evaporazione. Il modo medievale e moderno di bere il vino discende dal lento convertirsi del mondo romano ai gusti “barbari”, già nel corso dell’età imperiale, ed è anche per questo che, pur identificando i vitigni originari, non è facile immaginare il gusto vero dei vini del mondo classico. Fin dalla seconda età del Ferro l’associazione di falcetti da vino nelle tombe delle province di Novara e Verbania (Dormelletto, Oleggio ed Ornavasso), come simbolo esplicito di proprietà di vigneti e non come mero attrezzo di lavoro, documenta l’importanza già in età preromana, di una produzione che non a caso si affianca all’eccezionale diffusione come vaso contenitore di un recipiente da mensa (“fiasca a trottola”) la cui tipica forma ripete in modo significativo quella di una odierna bottiglia da ossigenazione. In effetti, tra il II secolo a.C. e la romanizzazione, appare evidente a cavallo del Ticino la diffusione di questo tipico contenitore da vino, derivante dalla tradizione del “vaso a bottiglia” golasecchiano, non senza influenze di forme tipiche del nord della Francia, diffuse nelle necropoli a seguito delle invasioni galliche del IV secolo. La riprova dell’utilizzo del vaso a trottola come contenitore di vino viene dall’iscrizione che riporta uno di questi reperti nel corredo della tomba 84 di Ornavasso, databile al primo quarto del I sec. a.C.: Latumarui Sapsutaipe uinom natom (“a Latumaro ed a Sapsuta un nantos – coppa o vaso o misura di capacità, da un termine celtico che significa alveo, conca, valle – di vino”).[1]
E’ probabile che il vino trasportato con le anfore dalla
Grecia ad Adria o a Spina e da qui lungo le rotte fluviali fino al Forcello, non si arrestasse in questa località, ma che dopo essere stato travasato in contenitori più adatti al trasporto via terra, ad es. in botti di legno, proseguisse oltre, fino ai Celti golasecchiani e a quelli dell’Europa centrale. Si spiegherebbe in questo modo la diffusione anche presso queste popolazioni della ceramica attica e del vasellame bronzeo etrusco, che costituivano il servizio per la preparazione ed il consumo del vino durante il banchetto.[6]
A partire dal III secolo, fonti letterarie, iconografiche e archeologiche attestano, per lo smercio del vino, un uso più generalizzato rispetto al passato delle botti, cioè di un tipo di contenitore che si conserva solo in condizioni di deposito molto particolari. I dati forniti dalle anfore vinarie non rifletterebbero perciò – almeno da un certo momento in poi – la totalità del commercio vinario, ma solo l’avvenuto trasporto di quelle produzioni che di esse si servirono o continuarono a servirsi.[4] Da Strabone si viene a sapere che il vino nella Cisalpina veniva trasportato oltralpe da Aquileia, in piccole botti caricate sui carri (Strabone V, 1, 12).[7]
In ambito piceno, al momento non sono state identificate anfore picene di età tardo-antica, è quindi probabile, come ha suggerito A. Tchernia, che in questo periodo i contenitori ceramici venissero sostituiti dalle botti, peraltro ben documentate nelle fonti iconografiche di ambiente adriatico.[5]
Tomba 2, barilotto in legno (ricostruito) con rivestimento in bronzo sbalzato, piedini, coperchio e maniglia, IV sec. a.C., Museo Archeologico Ancona. |
Colonna Traiana, scena di trasporto di botti su carri trainati da buoi e muli, sotto la scorta dei legionari |
Vaso a trottola, cultura di Golasecca, IV-III sec. a.C., Museo Archeologico di Como |
Bibliografia
[1]L’alimentazione nell’Italia antica [http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/minisiti/alimentazione/]
[2]La grande storia del vino; Alfredo Antonaros; Edizioni Pendragon; 2000
[3]I tempi alimentari del Mediterraneo: cultura ed economia nella storia alimentare dell’uomo, Volume 1; Fausto Cantarelli; FrancoAngeli; 2005
[4]Le anfore di età imperiale del Mediterraneo occidentale; Clementina Panella; in Institut des Sciences et Techniques de 1’Antiquité; Céramiques Hellenistiques et Romaines
[5]Le vin de l’Italie romaine. Essai d’histoire économique d’après les amphores; André Tchernia; Rome: Ecole française de Rome; 1986
[6]La civiltà di Golasecca: i più antichi Celti d’Italia; Raffaele C. De Marinis, Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Università degli Studi di Milano (documento riservato)
[7]Rinvenimenti anforacei nel Trevigiano: tipologie e commerci; Silvia Pascale; Gruppo Archeologico Trevigiano
[8]I celti e il vino; Filippo Maria Gambari; trascrizione di conferenza svoltasi presso il Chiostro di San Sebastiano, Biella; 1998